Il lago al mattino porta con sé il rumore del traffico come un peso sull'acqua, il suono sordo alleggerito dai richiami degli uccelli costieri, dal tintinnare della corda sulla vela di una barca tirata su, il rumore di vecchie ossa che scricchiolano.  

La città odora di mare, lo zigzag salmastro dell'acqua salata che risale il fiume nel pomeriggio, i gabbiani che raspano tra i rifiuti, la vecchia dogana isolata dai ponti. In alto volano gli aerei, con la scia che forma un'onda bianca contro il cielo blu scuro. 

Il porto, la sera, è un arcipelago di luci, ogni paese attorno all'imboccatura stretta sembra un'isola, ogni scalo di alaggio e pontile una sinapsi di questo mare interno. Nei giorni luminosi, il vento cattura il fluttuare degli yacht che si dirigono verso l'oceano, superando file di campi di orzo che l'acqua ha reso rigogliosi. 

La notte, la baia pulsa di luce verde, le boe segnano il percorso verso l'oceano, l'Atlantico un sospiro di onde su isole lontane. A sud lungo il cielo si stagliano dolci colline rocciose, color lavanda prima dell'addio degli ultimi raggi di sole, ora viola sulle sommità, che vanno svanendo come il sole al tramonto. 

Nell'entroterra si trovano paludi e torrenti, ruscelli e fiumi, muschio, nebbia e pioggia, l'isola fatta d'acqua. Passeggiarci attraverso significa accoglierla come un tutt'uno, il freddo e il luminoso assieme. La strada è difficoltosa in inverno, il futuro è incerto, il terreno battuto dalle tempeste è un sogno inquietante di distruzione e rovina. Al largo dell'isola, l'oceano respira debolmente, soffocato dai detriti. La plastica segna il litorale, sbiancata dal sole e dall'acqua. Spezzata, le parti sparse nell'acqua, come tanti granelli di sabbia.   

Eppure, la sabbia si increspa sotto le onde del mare, i muretti di pietra resistono, il vento delle tempeste ne attraversa le fessure realizzate dalla mano sapiente dell'uomo. Eppure, c'è la foce del fiume con il suo estuario, santuario di lontre, sogliole e rondini. Più a largo c'è la piattaforma oceanica, dai cui bui anfratti emergono plancton e balene, messaggeri delle medie profondità, ben sotto le reti a strascico dei pescherecci. 

Così le acque del mondo si gonfiano al respiro della terra, le sue isole lavate dalle maree che salgono e scendono al ritmo della vita. In questi mari, l'isola è nave e portale, porto e rifugio, dai complementi incerti, che variano al variare del vento e della stagione. Le sue dimensioni sono universali, misurate dalle stelle in relazione a ciò che sta loro vicino. I confini sono infiniti, la linea d'acqua una geometria dall'equazione infinita, variegata quanto la storia dell'evoluzione umana. Passeggiare è un sogno ad occhi aperti, il suono delle conchiglie e delle pietre sotto i piedi la percussione sommessa di un tempo profondo, il vento un ronzio nella parte più interna dell'orecchio, gli occhi inumiditi. 

Nelle giornate più calde, il mare chiama, il freddo sale oltre il diaframma, il respiro accelera fino a trovare il ritmo ottenebrante dell'acqua, il nuotatore si lascia cullare dalle onde. Guardare verso la costa offre uno scenario sempre diverso. A volte si nota lo spruzzo giallo di un'alga che ozia pigramente sulle rocce. A volte è tutto grigio, un'immersione sfocata in colori tenui, percepita a tratti tra la pellicola di acqua salata. Una sera d'estate a Spiddal abbiamo nuotato in un paesaggio di rocce simile al deserto, nell'arancione dell'ultimo sole, quasi fossimo finiti su un pianeta lontano. Che l'isola sia grande o piccola, lo spazio che separa terra e mare è un luogo di transizione, il corpo, come la mente, in cerca di nuovi punti di riferimento.

Questo Hy-Brasil è uno spazio interiore. Perché quello che vediamo fuori, lo troviamo dentro, i noi stessi di oggi sono una raccolta di impressioni, esperienze, speranze e desideri. Siamo il sogno di un raccoglitore di oggetti abbandonati sulla spiaggia, un sogno portato a riva e aggiunto agli altri rottami che hanno trovato la salvezza sulla costa. Mettendo tutto assieme, potremmo trovare il futuro. I primi naviganti si mettevano in mare confidando nei racconti, nell'esperienza e nella fortuna. Adesso abbiamo mappe digitali e satelliti. Ma sono ancora misteriosi i sogni che plasmano la nostra destinazione, agitati dall'acidificazione degli oceani e dai cambiamenti climatici, da cui non è possibile trovare riparo neppure nell'entroterra. Ovunque ci troviamo, dall'oceano arrivano le nuvole, presagi di un futuro per il quale non abbiamo un linguaggio comune.

Il nostro rifugio inizia molto più in profondità, prima di ogni memoria umana. Si nasconde nelle pozze tra le rocce e nelle secche, assumendo le forme di meduse, molluschi e granchi. Vive nelle pietre, le cui storie sono più antiche delle parole. Affiora nelle piccole mani che rivoltano i ciottoli nelle secche, quanti strilli quando l'acqua della marea passa sopra gli stivali di gomma. Riecheggia nel tocco delle piccole cose e parla in gesti silenziosi, nella forma degli alberi piegati sotto il vento di ponente, lo stormo di gabbiani appollaiati sulla scogliera, il vento che consuma le strutture degli edifici abbandonati. Persiste, anche mentre cambia. Ci vuole tempo, ci vuole lentezza.

Gli spigoli vivi dei nostri tempi inquieti si riflettono nelle forme profonde del panorama costiero. Appena fuori Galway, le montagne fiancheggiano il mare, zigzagando come il tracciato di cardiogramma, le cime spezzate ammorbidite nelle nuvole. Più a sud, le isole Skelling sono così distanti che la presenza della terra emerge come un cambiamento nel cielo, la luce distante si diffonde sopra cime e campi non visti prima. Qui gli uccelli marini si tuffano dall'alto, come frecce fendono l'acqua. Sprofondata da qualche parte giace l'Atlantide dei sogni morti di impero, colonizzazione e dominazione. L'inquinamento regna sovrano su queste rovine, alienazione e disperazione fanno da degne consorti: conseguenze disastrose che non possono essere cancellate. Verso l'ovest si vede la linea dell'orizzonte, il sole calante che si piega verso il pianeta a formare di nuovo la Pantalassa, l'unico immenso oceano. 

Anche adesso abbiamo la capacità di ripensare il tutto, senza timore, la nostra isola come una visione sensuale e collettiva, disegnata con leggerezza nelle linee ampie e travolgenti di una marea che percorriamo assieme. Perché ogni isola ha il proprio ritmo, che batte attraverso persone ed edifici, strade, colline, spiagge, alberi, piante e uccelli. Sussurra di notte nelle onde che si infrangono sulla costa invisibile. Segna il tempo durante il giorno a una frequenza appena più bassa del vento. Tenere a mente tutto questo è un esercizio di attenzione che fa parte del tempo del sogno, ciascuno un'isola, ma collegato agli altri, tutti parte di un motivo che indica la strada verso Hy-Brasil.  

Viviamo la lunga sera del mare verso Occidente, mentre la luce si affievolisce. Attorno a noi si notano frammenti grigi di vite passate nell'ardesia spezzata e nelle pietre cadute, quali scheletri esposti delle epoche passate a formare spirali di fantasmi fossili. La costa si va calmando, gli uccelli si posano, i pescatori tirano su le lenze vuote. Davanti a noi ci sono l'acqua scura e il cielo che sembra inabissarsi, sotto di noi il movimento dei ciottoli sospinti avanti e indietro dalla marea. Sopra di noi, i pianeti brillano nel buio, una processione di stelle, Venere e la stella polare. In questo breve attimo, la frazione di una frazione di una frazione del tempo oceanico, il cielo riflette il mare, sospingendo verso un viaggio oltre le isole dei nostri vecchi noi stessi.  

Hy-Brasil è una premonizione di questo futuro. La sua architettura attinge a piene mani dal linguaggio e dall'esperienza di millenni passati, l'interazione di tutta la vita nell'ecologia animata di acqua, pietra e cielo. La cosmologia segna il pattern del luogo ed è l'oggetto disegnato nelle corde intrecciate, nell'ardesia, nella sabbia e nella carta. La sua speranza è la sopravvivenza, in solidarietà con tutto quello che ci circonda, dalla costa vicino ai punti più remoti. La vita su quest'isola è la declinazione infinita di sogno, tempo ed espressione. Parlare con il linguaggio di rocce ed onde, uccelli e pesci fa parte della giurisdizione dell'arte. Lo è da prima che il leggendario re irlandese Sweeney venisse condannato a vivere da solo nei boschi, e adesso stiamo imparando di nuovo questo linguaggio, con la bocca, le mani e lo spirito.